Caro Direttore,
pare che un magistrato abbia commentato la lettera di Marina Berlusconi dicendo: «Ma che vuole? Ha avuto giustizia». Se fosse vera, l'infelice uscita svela la scadente qualità umana di certi magistrati che pensano così. Vorrei chiedere al Direttore Feltri che pensa di questo «simpaticone» (magari bravo) che parla di un'assoluzione arrivata dopo 30 anni, ormai morto l'imputato.
Cordiali saluti
Roberto Costanzo
Caro Roberto,
che un magistrato pronunci la frase «non c'è motivo di lamentarsi, ha avuto giustizia», in risposta alla lettera di Marina Berlusconi, è la prova più chiara e più triste del degrado morale che attraversa una parte della magistratura italiana. Perché soltanto chi ha perso il contatto con la realtà, e forse anche con la coscienza, può definire «giustizia» una sentenza arrivata dopo trent'anni di processi, insinuazioni, linciaggi mediatici e devastazioni personali. Una sentenza giunta per di più quando l'imputato è già morto, e quindi incapace perfino di difendere la propria memoria davanti ai giudici, che vi sia assoluzione o meno. Se questa è giustizia, allora la giustizia in Italia non è più un valore, ma una caricatura di se stessa. La giustizia vera deve essere giusta nei tempi e nel metodo, non soltanto nella conclusione. Assolvere un uomo dopo decenni di calvario, quando è già sotto terra, significa prenderlo in giro due volte: la prima quando lo si accusa, la seconda quando lo si «scagiona» troppo tardi per restituirgli la vita che gli è stata tolta. Silvio Berlusconi non ha avuto giustizia. È stato perseguitato e massacrato da un sistema giudiziario politicizzato, da procure militanti e da una parte della stampa compiacente, che hanno trasformato la giustizia in un'arma di lotta politica. Gli hanno sottratto serenità, salute, tempo, rispetto. Lo hanno infangato in ogni modo possibile. E ora qualcuno pretende di archiviare la questione con un'alzata di spalle: «Ha avuto giustizia». No, caro signore in toga. Berlusconi non ha avuto giustizia: ha avuto un martirio. E noi ne siamo testimoni. Ha passato trent'anni a difendersi da accuse che oggi la Cassazione smentisce, ma che nel frattempo hanno distrutto la sua esistenza privata, la sua immagine pubblica e la sua serenità. Non si tratta solamente di un errore giudiziario, ma di una tortura giudiziaria, perpetrata per lustri da chi ha confuso il diritto con la vendetta. Il compito di un magistrato non è ergersi a censore morale, né fare politica, né distribuire giudizi etici sulla vita degli altri. Il suo dovere è garantire il rispetto della legge, con equilibrio, rapidità e decenza.
Dire che «ha avuto giustizia» quando la sentenza arriva post mortem è un insulto alla logica e all'umanità. È come dire a un malato terminale guarito dopo la sepoltura: «Vede? Le medicine hanno funzionato». La giustizia italiana, quando si comporta così, non ristabilisce la verità: la seppellisce insieme alle sue vittime.
E il silenzio complice di tanti colleghi, che invece di indignarsi tacciono, rende questa realtà ancora più intollerabile. Non conosco il magistrato in questione, ma so che con frasi del genere tradisce la toga che indossa. Perché la giustizia, quella vera, non è un esercizio di potere: è un atto di umiltà. E di umiltà, nel nostro sistema giudiziario, ne è rimasta pochissima.

